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Mali- Vivere in un miracolo

Aggiornamento: 5 nov 2019

Dal 14 luglio al 25 agosto 2017, sono stata più di 40 giorni in Malì, vivendo la loro semplice vita, quella dei Maliani, sempre assistita da Amadou e da Soumaila, i miei angeli custodi e, nei paesi Dogon, da Sekou, un grande amico. Sicuramente non ho visto tutto ciò che sarebbe stato bello vedere per avere un quadro complessivo di questo paese dalle mille sfaccettature. Ma quello che ho visto e vissuto è stato sufficiente per farmelo amare incondizionatamente. Detto questo, non permetterò mai a nessuno di parlar male del Mali…. Certo ci sono aspetti positivi ed altri meno, alcune cose non si amano (come il traffico caotico di Bamako (ce ne abbiamo già tanto a casa nostra!) o i mucchi di plastica per le strade), ad altre ci si abitua pian piano (come la confusione e l’assillo dei venditori al grand marché), altre ti incuriosiscono per la loro particolarità (come la moschea nella grotta di Faramisiri o i bambini delle scuole coraniche che chiedono cibo per la strada), ma altre


ti prendono il cuore, tanto da diventare i tuoi “luoghi dell’anima”. Non ho sentito più di tanto la mancanza di Mopti, Djenné e Timbuctù: non erano accessibili, perciò inutile farsene un cruccio! Alla fine di tutto, mi rendo conto di essere vissuta all’interno di un vero e proprio miracolo. Ora vi spiego perché. Ecco il mio racconto.


Se non ci fosse il fiume Niger ad irrigare e rendere fertile e verdeggiante la terra del sud del Mali, nel Mandé di Siby da dove vennero i Dogon e nei parchi naturali del Kayes, il Paese sarebbe tutto un deserto, stretto com’è tra il Sahara ed il Sahel, tra il deserto più arido e la savana. I due terzi del paese non sono altro che sabbia, ma durante i tre mesi della stagione delle piogge il Sahel si trasforma in un’oasi di verde. Poi sembra di nuovo ritirarsi, come una tartaruga, nel suo guscio arido e inospitale. Ma è allora, quando piove, che avviene il miracolo. I grandi baobab, come giganti buoni, regalano i loro germogli più teneri per rendere più gustosi i piatti di riso, e nell’unica notte della loro vita, aprono i loro bianchi ed effimeri fiori profumati, per offrire il nettare ad una miriade di insetti e pipistrelli. Il baobab, gigante della savana, è l’albero della vita perché disseta, nutre e guarisce, è acqua, cibo e medicina, ma anche luogo sacro. Il Sahel, nella stagione delle piogge, ridiventa vivo. Gli allevatori Peulh, in una specie di transumanza, vi conducono le loro mandrie di buoi e di capre, e per un po’ vivranno nelle loro rotonde, precarie capanne di rami, che in mezzo alla uniforme distesa di sabbia, sembrano funghi giganti.

La gente dei villaggi sciama dalle case e comincia alacremente e tenacemente a lavorare quella terra sabbiosa per ricavarne un raccolto, uno solo, di miglio, di mais, di arachidi, di dolci cipolle, di riso dove ciò è possibile. Basta poco per fare un solco, anche i bambini possono farlo, con un rudimentale aratro trainato da un cammello, da un cavallo o anche da un asino, perché la sabbia è leggera, e, una volta lasciato cadere il seme, sarà la pioggia a farlo germogliare e crescere velocemente con l’aiuto del calore del sole che lì non manca mai. Per quei tre mesi tutti gli abitanti dei villaggi lavoreranno incessantemente per strappare le erbacce che crescono ad una velocità spaventosa e che, altrimenti, soffocherebbero la piantina che, per loro, significa vita. Si lavora tutti i giorni, chini sulla terra, senza conoscere riposo, perché il tempo stringe, tre mesi passano in fretta. Finché, finalmente, arriva l’ora del raccolto. Solo allora si tirerà un respiro di sollievo, quando le spighe potranno essere gelosamente conservate in quegli strani granai puntuti, che sembrano usciti da una favola.

Sono i granai dei Dogon, il popolo della falesia, il popolo delle stelle dalle misteriose conoscenze cosmogoniche, dalle strane danze rituali ricche di significati a noi incomprensibili. Poveri, i Dogon, ma ricchi in generosità, con un’apertura alla vita che va oltre la vita stessa. Sì, perché nell’aldilà la vita continua esattamente come sulla terra e da lì gli “antenati” avranno il loro gran da fare per proteggere quei pasticcioni degli uomini sulla terra! Poi, tra i piccoli villaggi sparpagliati lungo la falesia, tutti con i granai dai tetti a punta che sembrano usciti da una vera e propria favola di altri tempi, scopri all’improvviso i tuoi “luoghi dell’anima”, quelli dove senti il desiderio fortissimo di restare per sempre.

E mentre scrivo queste righe vorrei essere a Begnemato, vorrei potermi arrampicare sulle rocce tra le fessure della falesia, per raggiungere questo posto lassù in alto, su un pianoro circondato dalle pareti della montagna, quasi scavato sulla sua cima per nasconderlo al mondo. Lì, tra le abitazioni squadrate color della terra, svettano i granai puntuti dei Dogon. Lì il silenzio è di casa, rotto solo, ogni tanto, dalle grida gioiose dei bambini e dal ritmico toc toc del lungo pestello che batte sui chicchi di miglio dentro i contenitori di legno. È un segnale di vita che si ripete da secoli, con lo stesso ritmo di quando l’uomo era ancora vestito di pelli.

Lì neppure i cani abbaiano, come per rispettare questo silenzio che sa di sacro. In cima alla vetta più alta svetta una croce, come un Golgota e, nel chiaroscuro della notte che avanza, sembra un monito. Unico segno visibile di una religione che si mescola, anch’essa in silenzio, con quella dell’Islam e con quella, ancora più antica, animista, capace di dare un significato divino a tutte le cose, la religione dell’anima. Qui siamo in alto e se ci si arrampica ancora più su, sul bordo di questa che sembra una caldera, si può ammirare la grande distesa del Sahel, dapprima verde di miglio, poi sfumata dall’arancio al rosso là dove è troppo lontana per essere coltivata. Eccolo il miracolo della pioggia, un miracolo che si può toccare con mano. La pioggia amica che fa fiorire il deserto e lo rende madre che sfama. Che fa scorrere i fiumi, dove la gente si immerge come per assorbirne la linfa vitale. La pioggia che lava via i granelli di sabbia accumulati sulle cose dall’harmattan, e restituisce al mondo i suoi veri colori, come un padre premuroso. Da qui non vedo le antiche grotte dei Tellem, dove riposano in pace i defunti dogon. Ma so che ci sono, lungo le pareti a strapiombo, e mi immagino lì nel mio ultimo riposo. Nella solitudine che è stata sempre una parte di me. Lo sento mio questo posto. L’ho subito sentito mio. Ed oggi mi attira più che mai…

E poi c’è Kani Kombolé, un altro “posto dell’anima”, una favola … dove le storie si intrecciano, dove tutti hanno lo stesso cognome, dove le sagge tartarughe si nascondono nelle acque limacciose del loro laghetto, dove i bambini, curiosi e timidi, forse anche un po' spaventati dai miei capelli bianchi, sbirciano la mia diversità con i loro occhioni avidi e intelligenti, dove la solidarietà è di casa, perché si condivide tutto. Dove anche la fatica per restaurare la moschea diventa occasione di gioia.



Vorrei essere ancora con loro, i miei amici Dogon, vera “yana”, grand-mère, nonna. Ma anche madre. E, come una madre, sento la loro lontananza pungolarmi l’anima. Sento mie le loro necessità … che sono tante. Non sono ricchi i Dogon, ma hanno in abbondanza gentilezza e sorrisi e capacità di condivisione… Cose che non costano … perché non hanno prezzo.

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